RE 60 – Il “ninfeo” di Termini? (13.12.2012)

  

Termini Imerese, luogo prediletto dalle Ninfe! Questo tramandano le fonti classiche e tutti i termitani, anche i meno colti, lo sanno, non foss’altro perché conoscono la storia di Ercole e delle Ninfe che gli ristorano le forze, favola raffigurata, ad esempio, nel bel quadro che campeggia nell’atrio del “Grand Hotel delle Terme”, dipinto che anch’io ho avuto modo di ammirare tutte le volte (ahimè rare!) che vi sono stato per le benefiche inalazioni o per prendere i bagni caldi “serviti dalle mani delle Ninfe”.

Oltre a queste specialissime Naiadi del “vapore” c’erano quelle, ben più note, dell’acqua (fredda), quelle Ninfe, personificazione dell’energia idraulica, alle quali la dea Cerere affidava il compito di lenire la fatica delle fanciulle addette alla macinazione manuale del grano, facendo girare al loro posto le ruote dei mulini. Questa fusione di elementi mitologici e idilliaci – la bellissima poesia di Antipatro, la fonte Egeria, i luoghi di delizie, i teatri e i giochi d’acqua, ecc. – con elementi tecnologici – rivoluzione industriale, telai meccanici, macchine a vapore acqueo (ed elettrico – vedi Beccaria News), ecc. – è ben descritta dal nostro Reuleaux nelle conferenze del 1879 "Über den Einfluss der Maschine auf den Gewerbebetrieb” e “Cultur und Technik” (vedi anche la tesi di Bragastini in FO 49).

Chi avesse avuto la ventura di leggere qualche scritto di Pericle Perali sulla romanità capirebbe meglio, credo, il “senso” delle imponenti rovine di acquedotti, terme, fontane-ninfei (ad esempio i celebri “Trofei di Mario” di piazza Vittorio) che si incontrano per ogni dove a Roma: la maggior parte non erano “Curie” o “Basiliche”, ma luoghi di lavoro, fabbriche, arsenali, giganteschi cantieri – tutti funzionanti con la forza motrice idraulica – senza i quali, come scrivo già dal 2009 (vedi AG 28La città sbancata), l’impero romano non avrebbe potuto assurgere alla sua potenza. Aggiungo che forse queste affermazioni apparirebbero meno ardite qualora si fosse anche letto il Vitruvio divulgato da Cesariano (vedi RE 48) e da Poleni (vedi AG 30), e soprattutto sulla scorta non di archeologi-letterati, ma di archeologi-ingegneri come Pace (vedi PO 7), Vescovali (vedi CA 34) e pochissimi altri.

Per quanto mi risulta ben pochi comuni hanno avuto una cultura dell’acqua e della romanità come Termini Imerese (vedi, oltre al citato AG 28, le mie quattro serie di idraulica romana AG 29, AG 30, AG 37 e AG 38). Questo doppio legame è emerso anche dalle feste “Termini romana” (vedi ad esempio il video realizzato, e segnalatomi, dalla Sicilplay) che da un paio di estati si svolgono nella zona archeologica della città, il “piano di San Giovanni” comprendente i resti dell’anfiteatro (il “Colosseo” di Termini), il piano Barlaci e, soprattutto, la celebre “villa Palmeri”, con i ruderi della cosiddetta “Curia” (foto a sinistra) e con l’amenissimo laghetto (foto a destra) – che mi piace immaginare come un’eco dei ninfei della classicità romana – da sempre meta dei trastulli dei piccoli, dei romanticismi dei giovani e delle nostalgie dei vecchi termitani. Una parte di quest’area archeologica è visibile nell’icnografia al centro, tratta da Ignazio De Michele (il benemerito autore della “fotografia” della Fortezza di Termini - vedi RE 39), Scavi in Termini-Imerese, Archivio Storico Siciliano, 1878. In questa piantina, per chiarezza, ho segnato (in rosso) il recinto tra la villa e l’anfiteatro, lo strano cunicolo da dove “uscivano i leoni” (vediCuria o castelletto?”, p. 29) e la direzione del citato laghetto, circa 50 m a nord della “Curia” (si veda anche il dotto articolo “Il colosseo di Termini Imerese” dell’amico Giuseppe Longo).

Come altrove ampiamente ribadito dallo scrivente tale curia era probabilmente il primo “castello idraulico” della colonia romana termitana. Le solidissime fondamenta, a quota di circa 70 m s.l.m., fanno ipotizzare una fabbrica alta una decina di metri, e cioè fino allo stesso livello della torre “di compressione” Barratina dell’acquedotto Cornelio (80 m s.l.m.). E questo non solo sulla scorta dell’ormai citatissimo Houel (vedi AG 28), ma anche delle parole di un altro contemporaneo, noto e autorevolissimo “viaggiatore” settecentesco: “nel piano di San Giovanni si osservano in alcuni luoghi certi canali, che danno indizio o di alcune singolari particolarità, o che forse in quel luogo eseguivasi la divisione dell’acqua a diversi usi destinata” (Paternò di Biscari, cit., p. 184), nonché dei miei vaghi ricordi giovanili circa dei condotti ben visibili nella “fossa” del piano Barlaci. Del resto anche il De Michelepur attenendosi al “responso” del Romano circa la predetta “Curia”, in seguito agli (peraltro incompiuti) scavi del 1827 – a sud di tale fabbrica segnala (dopo chissà quanti secolari scempi vandalici e …archeologici!) un superstite “condotto, il cui suolo è formato di pietre irregolari di piccola dimensione, e coverto da bassissima volta, forse destinato allo scolo dell’acque piovane”.

Chiudo con un appello sempre più accorato e sempre più urgente: che il tesoro delle testimonianze idrauliche di Termini Imerese e, soprattutto, delle relative conoscenze da secoli tramandate fino agli ultimi “maestri d’acqua” termitani – e gelosamente o inconsapevolmente da essi custodite – non vada definitivamente e irrimediabilmente perduto.

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