CA 17 – Caverni premiato! (25.4.2010)

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Malgrado nessuno me lo abbia chiesto – lo sottolineo con amarezza – ritengo “giusto” dedicare ancora una pagina a Raffaello Caverni e alle traversie della sua colossale “Storia del metodo sperimentale in Italia” (vedi CA 13).  E lo faccio avendo specialmente sott’occhio due scritti di Filippo Orlando, l’amico devoto di tanti anni e il biografo del nostro Caverni: un articolo apparso il 13 luglio 1902 nel quotidiano La Nazione di Firenze, in occasione delle solenni Onoranze a Montelupo Fiorentino, paese natale di Caverni, e un altro, ancora più importante, nella rivista L’Italia moderna (1906, p. 732-736), da cui riporto alcuni brani:

“Chi si fosse trovato in Firenze la mattina di ogni mercoledì nella Sala dei manoscritti (vedi foto) della Biblioteca Nazionale, avrebbe veduto entrare un prete di giusta statura, magro, semplice, vestito molto alla buona, e che di prete, veramente, come segno esterno, non aveva altro che il collare. Andava subito, diritto, a salutare l’illustre barone Podestà, amico dotto e sincero di tutti gli studiosi, bibliotecario conservatore dei manoscritti, che sedeva in capo alla lunga e larga tavola; e vi prendeva posto, non molto lontano da lui, dove erano ammonticchiati parecchi grossi volumi…

“Gli argomenti stessi dei suoi discorsi facevano conoscere una persona che andava affaticando l’intelletto nei più difficili e riposti problemi della scienza. Si rimaneva meravigliati però della sua genialità, della eleganza e della vera italianità della forma, e si era gradevolmente colpiti dal fatto che quasi mai sulla sua bocca corressero citazioni di nomi forestieri, e che ogni suo dire invece trovasse sempre autorità negli italiani…

“Non sarebbe tempo e doveroso tentar di ottenere che, mediante adeguato compenso, tanti preziosi documenti [gli inediti di Caverni] fossero depositati nella nostra Biblioteca Nazionale? Vi accorrerebbero subito, probabilmente, molti scienziati che si stillano invano il cervello attorno alle Effemeridi del Galilei, e ai segreti del Torricelli, in cui era penetrato appieno chi scrisse quelle carte…

“Alla fama di Raffaello Caverni non occorre uno dei soliti monumenti o ricordi marmorei che con tanta frequenza vengono innalzati anche ai piccolissimi; egli, grandissimo, aveva elevato a sé tale monumento imperituro che è carità di patria mettervi l’ultima pietra, affinché rifulga agli occhi di tutti in onore della scienza italiana. L’animo nobile ed eletto del senatore Civelli indubbiamente vorrà contribuire a quest’opera patriottica: io gliene rivolgo caldissima preghiera e nessuno, oso sperarlo, rifiuterà di unire la propria voce alla mia…

“La storia continua in tali e svariati contrasti che sembra di leggere un romanzo. Il retroscena dei concorsi, le difficoltà inesorabili della scriniocrazia, certi intrighi, certi tentativi di trarre facile frutto dell’opera altrui, sono descritti e documentati dalle lettere che il Caverni riceveva e dalle copie di quelle che egli rispondeva; mostrandosi sempre nobilmente vivace nella polemica, parlando risoluto nella difesa dei suoi studi e della verità. Io lascerò da parte, almeno per ora, questo periodo di battaglie, se bene vi sia tanto da imparare, e tanti uomini da conoscere”.

Considerato che Caverni frequentò la biblioteca di Firenze per trent’anni (1870-1900) e che ogni volta poteva forse spulciare un paio di volumi o faldoni – tutti scelti però, si badi bene, tra i testi “chiave” e i documenti più significativi per trattare, nel “vero modo”, la storia della Scienza – è facile calcolare o presumere che le 3260 fitte pagine che, con trepidazione, il 13 marzo 1889 egli spedì (in plico non sigillato) all’amico prof. Antonio Favaro per partecipare al concorso indetto dall’Istituto Veneto fossero il corrispettivo o il frutto di altrettante “voci” dell’archivio personale che Caverni, con pazienza certosina più che con “tedesca erudizione”, si era creato nel corso della sua vita.

Tale concorso fu bandito (peraltro due volte) per volontà testamentaria di un ricco veneziano (forse estraneo al mondo accademico) il cui lascito sarebbe andato, in base a rigide clausole, non solo al vincitore ma anche all’Accademia. Tralasciando i dettagli dirò solo che fu giocoforza premiare Caverni, anche se nessun commissario, a cominciare dal Favaro, poté essere in grado di leggere il mare di carte del Nostro, né ancor meno entrare nel loro merito, e soprattutto anche se in alcuni passi il Caverni si era permesso, nientedimeno, di non “incensare” come dovuto il Galilei (è questo il principale motivo per cui Caverni attende da oltre un secolo di essere “sdoganato”).

Le cronache dell’epoca riferiscono che Caverni rifiutò una cattedra offertagli dal Bonghi e di entrare a far parte dell’Accademia dei Lincei, ma come siano andate realmente le cose credo che non si potrà mai sapere. È certo invece che Caverni formalmente fu vincitore, ma sostanzialmente fu emarginato e “liquidato”, in ogni senso, con le 5000 lire del premio.

In base alle clausole testamentarie tale somma poteva essere incassata solo dopo la pubblicazione dell’opera, ma soprattutto, ultima beffa per il povero prete, si rivelò assolutamente insufficiente a coprire le spese di stampa di un’opera così gigantesca. Solo dopo alcuni anni, grazie anche all’interessamento del fido Orlando, si trovò un mecenate nell’editore Civelli, che iniziò gradualmente a stampare la “Storia del metodo sperimentale in Italia”, senza però poterla completare, non tanto per la morte dell’autore, ma per le sciagure familiari che colpirono l’unico vero “paladino”, di nome e di fatto, del Caverni.

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