1 – L’abate Patuzzi e l’edizione postuma dei libri di Beccaria

(N. B. – La numerazione delle figure si riferisce all’edizione cartacea)

 

Nella biblioteca universitaria di Bologna sono conservate due copie dell’edizione maceratese delle opere di Giambattista Beccaria[1] (1716-1781), l’indiscusso padre, non foss’altro per motivi anagrafici, della scienza elettrica in Italia. Queste due copie, entrambe in due volumi, collocate rispettivamente con le segnature A.IV.I.V.4/1-2 e A.V.Z.III.27/1-2, pur essendo identiche, hanno i frontespizi, riportati rispettivamente in Fig. 5 e Fig. 6, del tutto diversi, a cominciare dalla data (1793 e 1794)[2]. Poiché la predetta edizione beccariana maceratese è conosciuta e accreditata con la data del 1793 (foto a sinistra) si potrebbe essere indotti a considerare l’altra del 1794 (foto a destra) come “apocrifa”. La questione però è più complessa ed ha implicazioni scientifiche, come ben intuito da Mario Gliozzi[3] e soprattutto da Silvestro Gherardi[4], che travalicano il ristretto ambito filologico nel quale può essere stato o potrebbe essere comodo liquidarla.

Un’altra stranezza è che nel secondo tomo della copia del 1794 ricompare la data “normale” del 1793, mentre l’anomalia più grande, quella che ha messo in allarme il Gherardi, è che tutti i secondi volumi di questa edizione maceratese, pur portando nel frontespizio e nei visti della censura la data del 1793, contengono alcune lettere datate 1794. In una di queste lettere, per l’esattezza l’undicesima della terza parte del secondo tomo[5], intitolata Del fluido elettrico animale, si accenna, con grande cognizione di causa, a degli opuscoli del Galvani[6] che stavano molto a cuore al Gherardi[7] e dei quali in questa sede non possiamo occuparci perché ci porterebbero fuori tema.

Prima però di cominciare a sbrogliare questa complicata matassa è bene dichiarare l’utilità di questa improba fatica. L’edizione maceratese di cui ci occupiamo, anche se è l’opera di Beccaria più nota[8] e più diffusa nelle biblioteche, non è stata scritta da lui, da molti anni morto e dimenticato. Poiché nel frontespizio non compare nessun nome di curatore o “editore” questo libro, in tutte le biblioteche in cui è finito, è stato registrato come opera di Beccaria tout court e l’equivoco probabilmente si è radicato anche in quei pochi distratti lettori che lo hanno avuto per le mani[9]. Questo malinteso potrebbe essere trascurabile e senza conseguenze se l’edizione in oggetto fosse sufficientemente “curata”, come in genere lo sono i libri licenziati dal Beccaria[10], invece purtroppo si tratta di un libro abborracciato, che affastellando i testi del Beccaria, in se pregevolissimi, con sciatti scritti altrui e soprattutto con troppa licenza[11], involontariamente li dequalifica. La “sfortuna” di Beccaria non si può certo far dipendere solo dalle pecche editoriali dell’edizione maceratese, ma queste senza dubbio hanno avuto il loro peso nella più che bisecolare emarginazione del Nostro.

Beccaria infatti, come dicevamo, fu abbandonato immediatamente, e del tutto “sepolto”, già dopo la sua morte, principalmente per mancanza di amici veri e per l’ingratitudine dei suoi discepoli[12]. “Ad onta dei suoi meriti e dell’alta reputazione in cui visse, generalmente non fu amato né dai suoi colleghi, né dai suoi confratelli, né dai suoi concittadini”. Queste parole, tratte dall’Elogio anonimo riportato, o per meglio dire “riesumato” in quest’Atomo (vedi p. 16), sono dell’unico confratello[13] e discepolo (ma indiretto) che gli fu fedele, l’abate Lodovico Patuzzi[14]. E fu proprio questo Patuzzi, come romanzescamente scoperto da Gherardi, cit., l’invisibile editore e regista di questa ambigua e sgangherata edizione maceratese. Le sue intenzioni – ristampare e propagare, dopo una dozzina d’anni dalla morte, gli esauriti testi di Beccaria – furono lodevolissime, ma incontrò ostacoli enormi – lievitazione dei costi di stampa, annosi ritardi, tirature scoordinate, e probabilmente indifferenza se non ostracismo nelle Istituzioni, comprese le religiose, che avrebbero dovuto appoggiare l’iniziativa. Il risultato fu deludente, e forse anche, come detto, controproducente.

Per conoscere meglio la storia quasi romanzesca[15], come già accennato, di questa Edizione maceratese delle opere di Beccaria – d’ora in avanti la chiameremo anche Edizione Patuzzi o Edizione postuma – si può leggere il foglio manoscritto, qui riprodotto (Fig. 7), che accompagna la copia conservata nella biblioteca del Liceo Beccaria di Mondovì (la città natale di Giambattista Beccaria), copia donata, nel 1909, dall’ufficiale del Genio Antonio Botto, uno dei pochissimi seguaci ed estimatori del grande monregalese. È in questo solo documento[16], per quello che mi consta, che tornano i nomi di Patuzzi e di Gherardi.

Seguendo le preziose indicazioni del Botto passiamo alla biblioteca universitaria di Torino e consultiamo la copia di [Beccaria 1793], cioè la nostra Edizione Patuzzi, lì collocata con segnatura R. II. 119-120[17]. A ridosso del frontespizio (il normale) troviamo scritto, a mano, che quell’edizione era stata “procurata[18] e annotata dal Professore Ludovico Patuzzi e che alla biblioteca dell’università era stata donata, nel 1858, da Silvestro Gherardi, Professore di Fisica Generale e Sperimentale a Torino. Troviamo poi, subito dopo, undici pagine del Gherardi (manoscritte da lui o da altri) con notizie aggiuntive sul Patuzzi[19], uno scrupolosissimo confronto dell’Edizione Patuzzi con [Beccaria 1753], [Beccaria 1758] e [Beccaria 1772] e in ultimo un’approfondita analisi filologica del già citato Elogio anonimo del Beccaria[20].

Considerato il ristretto tema di questo Atomo non dirò nulla dei due Elettricismi, artificiale e naturale, e delle lettere al Beccari mischiati in questa Edizione postuma. Spero di aver occasione[21], e forza, per illustrare il “mortaio” e il “pozzo” elettrico[22], il “fiocco” e la “stelletta”, l’infinita “capacità” del suolo, l’“atmosfera elettrica”, il vero, semplice significato della teoria frankliniana (unico fluido o “vapore” elettrico) e delle concorrenti (due fluidi, vitreo e resinoso) nollettiane, barlettiane, symmeriane – nonché “voltiane”, perché il noto patrizio comasco, checché se ne dica, non fu mai frankliniano convinto, preferendo tenere, secondo il suo stile, il piede in due staffe[23].

Dirò però qualcosa, spero di definitivo, sull’autore del famoso Elogio anonimo[24]. Gherardi[25], seguendo l’attribuzione corrente, pensa sia Angelo Fabroni, l’editore del Giornale dei Letterati (di Pisa) e dei monumentali Elogi di uomini illustri[26]; il Pace, che nel secolo scorso si è occupato a fondo[27] del Nostro compulsando, a Filadelfia, le carte di Franklin, l’attribuisce a Bartolomeo Bianucci, un battagliero galileiano di cui non ho potuto trovare alcuna traccia[28]; il Tega, a cui dobbiamo la bibliografia più esaustiva su Beccaria, è convinto che l’autore sia il conte Prospero Balbo, colui che insieme ai due Eandi, raccolse eredità e lasciti del suo maestro[29]; infine il Berra, che nel secolo scorso ha dato un altro strappo al velo di omertà su Beccaria che già il Claretta aveva cercato di squarciare[30], opta, sia pure esitando, ancora per Fabroni[31].

Dell’Elogio anonimo esistono tre redazioni: la prima, nel Giornale dei Letterati, Tomo L, 1783; la seconda negli Elogj di uomini illustri, Tomo II, 1789; la terza in [Beccaria 1793][32]. Escludo che l’autore sia Fabroni, perché questo dotto, che non ebbe frequentazione con Beccaria, fu solo il curatore delle due raccolte citate, mentre l’ipotesi del ventenne Balbo non regge non foss’altro perché nella prima redazione l’autore dice che aveva “notizia sicura” che del Beccaria si stava approntando la completa pubblicazione delle opere inedite. Ora, poiché questo compito, come si sa, era stato affidato proprio a Prospero Balbo, è impossibile che questi attribuisca ad altri una cosa che invece sarebbe stata di sua pertinenza[33].

No, l’autore doveva essere un tecnico e, soprattutto, un confratello del Nostro: troppi dettagli tradiscono la sua competenza delle cose elettriche e delle regole scolopiche. Dopo aver scartato le ipotesi dello scolopio Barletti, dell’abate Canonica (braccio destro di Beccaria a Torino), di Canovai e infine di Caetani[34], non restava che il solo Patuzzi. La consultazione di due noti repertori scolopici, [Picanyol 1952] e [Vilà Pala e Bandrés Rey 1983] me ne ha data la più luminosa conferma.

Dunque Lodovico Patuzzi oltre ad essere stato, nel 1793/94, il curatore, anzi il “procuratore” dell’edizione postuma degli Elettricismi di Beccaria, era stato anche, una dozzina d’anni prima, il riservatissimo autore del suo Elogio funebre. Tanta devozione si può ripetere, credo, dalla “predisposizione” scolopica alle applicazioni scientifiche – penso a Barletti, Cecchi, Serpieri, Baccelli, Ximenes, Barsanti, Gaudio, ecc., per non risalire agli ancora meno noti scolopi galileiani Famiano Michelini e Clemente Settimi[35] – e dalla “presa” che le dottrine elettriche di Franklin, sviluppate, illustrate e perfezionate da Beccaria, avevano sicuramente fatto sul giovane Lodovico sin dai suoi anni giovanili[36]. Ha visto quindi giusto il Gherardi ad onorare il Patuzzi come il maggior interprete di Galvani, almeno circa il fenomeno delle contrazioni della rana all’interruzione del circuito[37]. Per parte mia l’abate Lodovico Patuzzi può essere considerato quasi un “profeta” del Beccaria o un “vindicatore[38] di colui che legò il suo nome, più che ad ogni altra cosa, alla famigerata “elettricità vindice[39].

Possiamo ora, per concludere questa rapidissima esegesi, spiegare il mistero della edizione maceratese “apocrifa” (Fig. 6), quella del 1794 che, fidandoci sempre di Gherardi, a cavallo tra Settecento e Ottocento circolò molto, almeno a Bologna[40], tanto da finire anche nella biblioteca universitaria di quella città[41]. Si trattò solo di una semplice operazione di “marketing”. A causa delle accennate vicissitudini editoriali – l’“ingordigia” dei tipografi (di Ancona prima e poi di Macerata), le superfetazioni in corso d’opera, forse la forzata rinuncia alla stampa delle tavole, ecc. – gli editori[42] si saranno ritrovate molte copie invendute del primo volume perchè “scompagnate” del secondo, di cui, per difficoltà economiche, saranno forse state tirate minor copie. Così, per svendere queste giacenze di magazzino fecero sparire la scritta TOMO I dal frontespizio sostituendolo con l’altro, datato 1794. La copia di Bologna è in definitiva “ibrida”: il suo secondo volume non si “accorda” col primo.

 



[1] Dalla bibliografia annessa o, più semplicemente, dai repertori si possono avere notizie di routine su questo fisico ingiustamente e inspiegabilmente (o quasi) rimosso o “sotterrato” nella polvere delle biblioteche. Per approfondimenti si può cominciare a leggere il suo Elogio ristampato in questo opuscolo (p. 16).

[2] Debbo queste informazioni alla non comune cortesia della bibliotecaria Dott.ssa Maria Cristina Bacchi.

[3] Per la migliore e completa intelligenza di questo Atomo è imprescindibile conoscere [Gliozzi 1961].

[4] È stato Gherardi il primo (1842), e l’unico, per quanto ne so, a notare l’incongruenza delle date e a sviscerare quasi completamente questo problema, connesso con la celeberrima disputa tra Volta e Galvani sull’elettricità animale. Si veda, assolutamente, [Gherardi 1842].

[5] Vedi, in questo Atomo, p. 13, l’Indice-Sommario dell’Edizione Patuzzi.

[6] Si tratta del Trattato dell’Arco conduttore e del suo Supplemento, usciti, anonimi, proprio nel 1794.

[7] Il Gherardi, che, a detta di Gliozzi, rimane il maggior studioso del Galvani, fu un ricercatore autentico, un benemerito della scienza, purtroppo ingiustamente dimenticato, quasi quanto il suo protetto Galvani. Quel poco di veramente scientifico che oggi è noto sullo “sfortunato” genio bolognese lo dobbiamo a lui.

[8] Relativamente, s’intende, perché credo che siano ben pochi, anche tra gli storici della scienza, a conoscere il nome e i meriti del Beccaria, oscurati, per così dire, dall’abbagliante “splendore” di Volta.

[9] Sicuramente per consultarlo nell’ambito di altre ricerche (magari sul Volta, tanto per cambiare!), perché opere specifiche su Beccaria – intendo sulla sua dottrina elettrica di matrice frankliniana – non ce ne sono. Quest’autore infatti, come accenneremo, comunemente passa per “superato” e quindi non vale la pena sobbarcarsi la fatica di leggere, o peggio studiare, i voluminosissimi e antiquati suoi libri.

[10] Mi riferisco soprattutto al suo capolavoro [Beccaria 1772], libro difficile da trovare nelle biblioteche.

[11] Gliozzi, cit., giustamente nota che Lodovico Patuzzi (che come vedremo fu il vero editore dell’edizione maceratese) non ebbe molti scrupoli critici nel pubblicare le opere del Beccaria.

[12] Un numero enorme, contando quelli diretti (Cigna, Viglione, ecc.) e quelli indiretti (Volta, Barletti, ecc.).

[13] Beccaria, come pure il Patuzzi, appartennero all’ordine degli Scolopi, o delle Scuole Pie.

[14] Sul Patuzzi, oltre alle preziose informazioni raccolte dal Gherardi, cit., posso aggiungere solo che fu allievo del celebre scolopio Stanislao Canovai. Vedi [Pozzetti 1812] e [Barsanti 1994].

[15] E scientificamente molto feconda perché getta molta luce, si badi, non solo su Beccaria, ma anche sulla celebre e distortissima disputa tra Galvani e Volta, cioè sui nostri massimi “elettricisti” del Settecento.

[16] A parte naturalmente il già citato, e lodato, [Gliozzi 1961].

[17] Erroneamente riportata nello schedario con R. II. 118-119, secondo l’avvertenza di Gliozzi, cit.

[18] Questo termine, oscuro per Gliozzi, credo che ora, con le osservazioni di questo Atomo, sia più chiaro.

[19] In particolare riporta la sua epigrafe al cimitero di Bologna, dettata dal fratello (e confratello) Giuliano o dal fratello Vincenzo (avvocato), da cui si desume che il Patuzzi (1743-1811) insegnò Matematica e Fisica a Parma, Volterra e Correggio, e fu teologo ad Ancona. Per altre notizie vedi [Gherardi 1842] e nota 14.

[20] Per leggere queste preziosissime pagine manoscritte non è necessario recarsi alla biblioteca di Torino, perché molto meritoriamente sono trascritte in [Gliozzi 1961].

[21] Per esempio in una serie di “Beccaria News”.

[22]Plagiati”, rispettivamente, nella celebre “pistola” di Volta e nella celeberrima “gabbia” di Faraday.

[23] La rivisitazione, anzi il dissodamento delle opere di Beccaria potrà far luce non solo sui suoi rapporti con Volta, ma soprattutto sul melloniano nuovo concetto di induzione elettrostatica. Vedi AG 20 e AG 23.

[24] Alla morte (maggio 1781) del grande Beccaria, decoro dell’Italia, le due principali riviste dell’epoca, il Giornale dei Letterati e l’Antologia Romana, chiesero “materiale” per imbastirne Elogi e Necrologi. Solo il barone Vernazza fu pronto a dettare un’epigrafe (vedi Fig. 1) per l’amico (sepolto nella fossa comune!), mentre molti mesi dopo apparve [Tana 1781], un Elogio più compiuto, ma sempre di “repertorio”.

[25] Si badi che Gherardi, interessato ad altro, pensava che l’Elogio era apparso per la prima volta nel 1789.

[26] Il Fabroni per questo è stato chiamato il “Plutarco d’Italia”. Vedi [Checcucci 1858], p. 53.

[27] Vedi [Pace 1952], [Pace 1958] e [Pace 1965].

[28] Il Pace si basa unicamente su una nota manoscritta nella copia di [Tana 1781] da lui esaminata.

[29] Su questi aspetti, molto ingarbugliati, si leggano, almeno [Tega 1969] e [Vendola 2000].

[30] Vedi [Claretta 1878] o [Claretta 1879].

[31] Vedi [Berra 1960]. Berra, monregalese come Beccaria, fu archivista alla biblioteca Vaticana.

[32] Si veda anche l’edizione critica in questo Atomo, p. 16.

[33] Si noti, tra l’altro, che Balbo fece disperdere gli inediti di Beccaria senza pubblicare un bel niente.

[34] Su Canovai e Caetani mi limito a rimandare ai carteggi che pubblico in questo Atomo, p. 43 e p. 49.

[35] Vedi [Barsanti 1988]. Per gli altri scolopi nominati si vedano i miei scritti, passim.

[36] Si veda la lettera che il ventenne Patuzzi scriveva nel 1764 al Canovai, altro scolopio di prim’ordine, e che ingenuamente, a maggior gloria di Beccaria, inserì nel suo libro celebrativo. Vedi p.  43.

[37] Vedi [Gherardi 1842], p. 58.

[38] Purtroppo solitario, perché nemmeno il Belli, l’unico scienziato che all’epoca non disdegnò di occuparsi di Beccaria, ebbe mai “contezza” dell’edizione maceratese, né ancor meno “vaghezza” di chi si nascondesse sotto la sigla L. P. Vedi [Gherardi 1842], p. 49 e [Belli 1838], passim. Per sviscerare i motivi, certo variegati, della totale emarginazione di Beccaria si può iniziare a leggere [Vallauri 1861].

[39] Su questo argomento di capitale importanza al momento posso aggiungere solo che è scientificamente e storicamente inesatto che Volta rigettò la teoria dell’elettricità vindice. Egli, nella sua finissima sagacità, si limitò a cavillare sulle denominazioni (vindice negativa, positiva, indeficiente, ecc.) e ad aggirarla (non a rifiutarla, si badi bene), introducendo il (troppo) comodo concetto di “induzione” (elettrostatica).

[40] Patria non solo di Galvani, ma anche della famiglia Patuzzi.

[41] Gherardi, cit., aggiunge che si poteva trovare a buon mercato nelle bancarelle dei librai e che presso i Patuzzi, ancora ai suoi tempi, esisteva un deposito di questi libri.

[42] È molto probabile che anche Vincenzo e Giuliano Patuzzi abbiano partecipato all’impresa editoriale.