1.2 – Elettroacustica (1979 – 1984)

 

Da tempo la mia fede granitica sulla univocità segno/significato aveva cominciato a vacillare e cercavo non più di restringere il campo semantico delle parole, ma anzi di allargarlo[1]. L’idea guida che era gradualmente subentrata nella mia mente e che mi spingeva alla ricerca – invero troppo empirica – era quella della discriminazione laminare/turbolento del flusso fonico[2]. Passare in rassegna tutte le innumerevoli cose a tal fine tentate sarebbe impresa non solo ardua ma soprattutto inutile e quindi mi limiterò a rapidissimi cenni orientativi.

Nei primi anni lavoravo più di saldatore che di penna, progettando o costruendo apparecchiature di misure e di analisi elettroacustiche[3]: V-meter con strumentini di tutti i tipi (magnetoelettrici, elettromagnetici, elettrodinamici, a led, a lampadinette a incandescenza), analizzatori di spettro audio, capsule per rilevare infrasuoni, circuiti rivelatori di pause e di asprezza, filtri per “separare” il segnale dal rumore (o meglio un segnale “pulito” da un segnale “sporco”), ecc.

Un filone di ricerca riguardò il fenomeno dell’assettamento della polvere di carbone nei microfoni usati per oltre un secolo nei telefoni[4]. Non solo l’alito, ma anche la natura del segnale, ad esempio il suono della s, difficoltosissimo ad essere riprodotto dai primi telefoni, o una vocale cantata, poteva influire su questo effetto un tempo molto studiato[5].

La mia formazione di elettrotecnico (correnti forti, come si diceva), senza studi regolari di elettronica (correnti deboli), mi portava a impostare i problemi di elettroacustica secondo criteri energetici: vagheggiavo un fattore di potenza (cos φ) anche in acustica! Ipotizzavo potenze attive, reattive (palleggiamento) e apparenti, ed ero perplesso sul vero o possibile significato del valore medio, di picco o rms per grandezze rapidamente, continuamente e spesso aleatoriamente variabili.

Facevo prove con filtri e “ipofiltri” (elettronici e meccanici), somme  e sottrazioni di segnali e/o di rumori (con o senza “piedistalli” in c. c., o plateau), disadattamenti di impedenza, diodi (= nervi?), amplificatori in c.c. (senza condensatori), scrambler, matrici o reticoli di resistenze, autoranging, controllo automatico del volume, ecc.

Assimilavo i guizzi incontrollabili che rimanevano una volta spianato il ripple del segnale (ad esempio col convertitore rms AD536, che spazza via le audiofrequenze) a frequenze non più acustiche, ma “ottiche” o infrasoniche. Restavano accavallamenti fonici (corrispondenti a commenti inconsci del parlante?) e grovigli di formanti che cercavo di discriminare con spectrum (frequency) o cepstrum (quefrency) grossolani, a lampadinette, autocostruiti. Anche le classi di lavoro e il sistema di alimentazione (switching o lineare) dell’amplificatore audio era critico. Quella duale poi influiva più del sospettabile (almeno per me!) sulla “riproduzione” del segnale.

Spessissimo le cause dei fenomeni che rilevavo erano accidentali, così cominciai a sospettare che questo non era dovuto solo alla mia imperizia. Dopo molti abbagli trovai un punto fermo: la luminosità dei led è ingannevole a causa di nostri “difetti” percettivi. Un’altra “scoperta” che, ricordo, mi sconcertò molto fu l’impossibilità di ricostruire (dinamicamente) un segnale audio dopo averlo sottoposto a una doppia inversione di fase[6] o averlo memorizzato e ritardato (con memorie a stato solido): il fonomontaggio digitale era sempre inspiegabilmente – e aleatoriamente – distorto rispetto al segnale originale, pur apparendo perfettamente “fedele” all’ascolto[7]!

Mi sembrava di aver scoperto che alcune parole latine formate da sillabe tutte lunghe, ad esempio ōrātōrēs, con alcuni tipi dei miei misuratori, davano una “uscita” più forte (un lampo, tanto che temevo che le lampadine si bruciassero) di quella di parole composte da sillabe tutte brevi, ad esempio ăvĭcŭlă. Mi rendevo conto però che tali rilievi erano molto soggettivi, perché altri, per esempio mia moglie, non percepivano differenze o addirittura leggevano le velocissime indicazioni degli strumenti in modo opposto al mio. C’erano differenze soggettive anche con le doppie (ad esempio pala e palla) e a seconda che i rilievi si facessero con la luce o al buio[8]. Non avendo la possibilità di una registrazione grafica, le perplessità rimanevano[9].

Nella mia prima visita (1982) all’Istituto di Acustica Corbino (sulla Cassia) avevo trovato due libri affascinanti: il vecchio e noto trattato del Radau (1880) e l’analisi elettroacustica del linguaggio di Agostino Gemelli (1934). L’infatuazione per quest’ultimo finì solo parecchi anni dopo, quando De Mauro ebbe a dirmi che Lucidi non aveva trovato niente di particolarmente rilevante negli studi del Gemelli.

 

 

 

 

 

 



[1] Qualche altro cenno negli articoli “Il minicalcolatore Edipo” e “Anatomia della rosa” in A. Gaeta, Miscellanea, Roma 2001.

[2] Monodirezionalità (o fluenza) del flusso laminare vs pluridirezionalità di quello turbolento. Vedi anche  A. Gaeta, La lingua bistabile. La scoperta di Mario Lucidi, Roma 1989, 1992 e 2001.

[3] Ispirandomi a riviste tecniche come Elektor, Sperimentare, Nuova Elettronica, ecc.

[4] Qualche tecnico anziano forse ricorderà la prova empirica per discriminare i microfoni buoni da quelli con la polvere impastata o aggrumata: si scuotevano come maracas per sentire se facevano un brusio di sabbia finissima.

[5] Inoltre, per motivi di fisiologia dell’udito, le fricative si odono bene anche a bassissimi livelli energetici.

[6] Studiando il gioco delle fasi con una rosa di alcuni microfoni variamente collegati posti davanti alla bocca (labirinto acustico) scoprii che la fase di uscita è sempre casuale (le fasi emigrano per conto loro).

[7] Si direbbe che i segnali una volta vivisezionati non si possono più ricombinare, riportare in vita.

[8] Analogamente ai fenomeni di eclissamento scoperti dal generale Faini in telegrafia ottica.

[9] In soffitta dovrei avere qualche grossolano oscilloscopio o “sequenzoscopio” a memoria autocostruito e un visualizzatore di spettro a memoria, tutti rivelatisi assolutamente inefficaci alla bisogna.